LE AREE INTERNE TRA ABBANDONI E RICONQUISTE

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Il paese oltre la città di Fabrizio Ferreri

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Bio: Sociologo del territorio, Fabrizio Ferreri è assegnista di ricerca all’Università di Catania, dipartimento di Scienze Politiche e Sociali. Già dottore di ricerca in Filosofia (Università Statale di Milano) e in Sociologia dello sviluppo locale (Università Kore di Enna), è socio della Società dei Territorialisti, dell’Associazione Italiana di Sociologia e di Riabitare l’Italia. Si occupa di disuguaglianze territoriali, rivolgendo in particolare la sua attenzione alle aree interne. Attualmente è impegnato nel progetto di ricerca GESI (Geography and Social Inequality in Italy. School, Work, Family and Mobility across Marginal and Central Areas) che coinvolge, oltre all’Università di Catania, anche l’Università Statale di Milano, Bologna, Trento e la Luiss di Roma. È direttore del Festival di Poesia Paolo Prestigiacomo – San Mauro Castelverde (PA)

I nostri paesi hanno un futuro? Quali sono le condizioni per il loro rilancio? Come articolare il rapporto paesi-città? E con quale postura politica e culturale?

La recente tornata di elezioni amministrative (maggio 2023) è un’occasione per riflettere sulla questione delle aree interne a partire da una constatazione empirica: gli amministratori locali quando parlano del proprio paese, quasi tutti quasi sempre, vi si rivolgono chiamandolo “città” e quasi mai “paese”. 

“Città” sembra il modo, l’appellativo, che viene in soccorso per “nobilitare” il paese. Si tratta di una spia linguistica estremamente eloquente: l’immaginario della città è oggi così dominante e vincente che, anche chi città non è, usa questo appellativo per autodefinirsi; e d’altra parte, in maniera simmetrica , “paese” risulta ancora oggi così fortemente associato a significati e valori negativi o non attrattivi che si preferisce evitarlo, anche per evitare immaginari di fatica, povertà, privazione, ristrettezza economica e culturale. Provate poi a dire “paesano” a un abitante del paese, soprattutto se è giovane o ha un percorso di studi alle spalle non la prenderà benissimo. Qualche amministratore locale al massimo chiama il paese “cittadina” – ma sta affermando di nuovo che il paese è una città a scala ridotta. Bonsai, ma città!

Un simile riscontro non riguarda naturalmente solo chi amministra i paesi. Nel paese siciliano di montagna dove trascorro una parte dell’anno, un giovane su due dai 16 ai 25 anni, interrogati con apposito questionario somministrato durante la pandemia, dichiara di volere nel paese esattamente ciò che offre la città. Paradossalmente, proprio mentre, con la pandemia, si tesseva l’elogio cittadino dei borghi come riserve di vita autentica o semplicemente possibile, quasi una nuova arcadia, chi quei borghi li vive ogni giorno dimostrava di continuare a desiderare la città. In sostanza, i ragazzi/e del mio paese hanno un unico desiderio: la città. La città – come forma di vita – occupa interamente il loro immaginario (e il loro orizzonte esistenziale). 

Questo duplice riscontro per quanto esito di un’esperienza empirica e di un dato statisticamente non rappresentativo fotografa in ogni caso un elemento abbastanza inequivocabile: l’esistenza di una narrazione urbano-centrica assolutamente dominante. 

L’oggettiva, e nota a tutti, condizione di svantaggio dei paesi rispetto alla città – meno servizi, infrastrutture, lavoro e opportunità, rarefatte occasioni di formazione personale ecc., secondo il canonico  “cahier de doléances” – sotto l’azione di questa narrazione urbano-centrica si trasforma e dà luogo a un vero e proprio complesso di inferiorità del paese nei confronti della città. Come ogni complesso anche questo non si colloca più sul piano oggettivo della realtà ma su quello profondo e immateriale dell’autorappresentazione in relazione al quadro dei significati e dei valori dominanti. 

Se si è d’accordo su questo punto ne consegue che, per il rilancio dei paesi, colmare il gap di servizi, infrastrutture e lavoro è certamente necessario ma non è sufficiente. È infatti indispensabile e urgente lavorare su questa dimensione profonda e immateriale di senso e di valore scarsamente considerata, seppure tanto centrale quanto evidente, che è il dominio esercitato sulla nostra cultura dalla potentissima narrazione urbano-centrica, che ci ricopre come una seconda pelle. 

È emblematico che da diversi anni da un piccolo paese siciliano, punto di riferimento nel banqueting per l’intera provincia, i giovani stiano emigrando verso le grandi città del Nord Italia o verso la Germania e fino a poco tempo fa anche verso Londra – per fare cosa, per impiegarsi dove? Per fare, la maggior parte, esattamente quello che facevano nel paese, i camerieri, a condizioni solo di poco più vantaggiose dovendo però affrontare nella città di arrivo un costo della vita molto più alto. Cosa rivela questo esempio facilmente replicabile? Ci mostra quanto poco il paese sia desiderato. Ci rivela – questione fondamentale – che la città è dominante ben prima e ben oltre la disponibilità  di lavoro, di servizi, di infrastrutture.

Ecco, dunque, il punto centrale che investe chi questi luoghi li vive o li vuole vivere: per esistere i nostri paesi hanno innanzitutto bisogno di dimostrare la forza di una visione autonoma; hanno bisogno di produrre – come espressione di questa capacità – narrazioni alternative a quella urbano-centrica. Hanno urgente necessità di (ri)-costruirsi una propria desiderabilità al di fuori della narrazione dominante. Il paese per poter esistere deve smettere di pensarsi come la città. Oltre e insieme alla battaglia politica per i diritti di cittadinanza, vi è una battaglia culturale da affrontare: ricominciare a pensare i paesi, re-immaginarli al di fuori della narrazione urbano-centrica che li ha sviliti, svuotati di senso, rappresentati come zavorre del tempo.

E, allora, tornando agli amministratori locali e ai ragazzi/e del mio paese, è necessario evitare in tutti i modi che il paese “insegua” la città sul suo terreno, all’insegna del suo modello di sviluppo (e della sua forma di vita). Se la visione che anima il paese è rincorrere la città, il paese sarà sempre perdente! Si commette un grave errore se per la rinascita dei paesi ci si ispira al modello di sviluppo economico e culturale che ne ha segnato la progressiva emarginazione, che è il modello accentrato e accentratore che si è riconosciuto, via via dagli anni ’50 in poi, nella città contemporanea. Pur senza misconoscere il valore di promozione sociale, economica e culturale che questo modello svolge ancora oggi, è chiaro che se avvertiamo nel paese una condizione di minorità e rintracciamo al contempo nella città e nel suo modello economico e culturale l’unica via per la sua emancipazione, il carattere assolutistico e predatorio di questo modello – dalla cui relativizzazione soltanto può generarsi un effettivo spazio di vita per i paesi – ne uscirà rafforzato ulteriormente. Avremo lavorato allora contro i paesi non a loro favore.

Allo stesso modo, però, non bisogna commettere l’errore opposto di pensare il paese in contrapposizione alla città. Siamo sommersi da narrazioni in cui il paese è contrapposto alla città: l’unico spazio possibile d’esistenza per il paese sembra collocarsi dentro a questa opposizione. In queste narrazioni il paese diventa un artificio, l’idillio folcloristico costruito per depurarsi temporaneamente dai materiali reflui dell’inquinata vita cittadina. L’effetto di questo paradigma oppositivo è offrire un’ancora di salvataggio alla città per evitare che il suo modello entri in crisi irreversibilmente. Sfogatoio della città, camera di compensazione dei suoi guasti, il paese in questo modo resta del tutto strumentale alla conservazione dell’assetto economico-culturale dominante.

Essere “come” la città o “contro” la città sono per il paese due modi di dipendere dalla città, continuando a restarne soffocato. Per poter produrre una visione autonoma e dunque una narrazione alternativa a quella urbano-centrica il paese non deve essere né comecontro la città, deve invece sapersi conquistare come altro dalla città, deve saper guardare oltre la città. Si tratta di concepire/re-immaginare il paese nella sua differenza dalla città – una differenza da articolare su un riconquistato piano di parità. Per tutto questo abbiamo bisogno di generare nuovi immaginari, immaginari altri rispetto a quello urbano dominante – immaginari che rendano i paesi desiderabili. C’è bisogno inoltre che questo “altro” e questo “oltre” rispetto alla città siano radicati, “situati”, declinati differentemente da paese a paese. 

Il paese può esistere esprimendo fino in fondo tutto il suo potenziale se indica un modo diverso e peculiare di essere e di fare – di fare socialità, di fare economica, di produrre, di abitare, di generare senso – che si pensa e si costruisce secondo una propria ratio non ripetibile, non riproducibile altrove.

Dare peso, dignità e cittadinanza a questa alterità, all’alterità dei paesi, non solo è una sfida che i paesi devono affrontare per se stessi, per la propria sopravvivenza: è una battaglia di civiltà.